Studio di Ingegneria Dott. Ing. Salvalaggio Renato

Qualche riflessione sulla Certificazione di Qualità    Home Page - Studio Ing. Renato Salvalaggio

          

 

Nasce in America la "Società dei Consumi"

L'idea che la "qualità intrinseca" di un prodotto sia una sua precisa caratteristica commerciale e non solo un motivo di soddisfazione e prestigio per il fabbricante ha una data di nascita precisa: è figlia della Grande Crisi economica, negli anni '30 del secolo scorso.

Prima di allora gli economisti credevano ancora alla teoria settecentesca dell'equilibrio tra domanda e offerta, secondo cui la capacità di assorbimento del mercato dipende solo dal prezzo di vendita del prodotto: era quindi praticamente illimitata, purché il prezzo di vendita fosse abbastanza basso. Una conferma di questa teoria l'aveva data Henry Ford, che con la sua catena di montaggio nel primo decennio del secolo era riuscito a fabbricare milioni di buone automobili per poi venderle, guadagnandoci, a 200 dollari l'uno; perciò nel decennio successivo tutti gli industriali americani cercaro­no di imitarlo comprimendo al massimo i costi unitari di produzione: in sostanza spingevano in alto la produttività mantenendo bassi i solari.

Non capivano che quando la produzione è "di massa" gli operai diventano anche clienti, e che clienti pagati poco possono solo comprare poco. In compenso le azioni delle loro aziende continuavano a salire, sicché un po' tutti in America finirono per integrare i bassi solari investendo in Borsa i loro risparmi.

Venne così a crearsi una pericolosa "catena di Sant' Antonio": gli investitori in Borsa aumentavano perché i listini salivano, e i listini salivano perché gli investitori aumentavano. Bastò quindi il "venerdì nero" del 1929 (di per sé non più grave di altri crolli avvenuti nella seconda metà del secolo) per innescare una reazione a catena: chi aveva perso i risparmi cominciò a limitare gli acquisti, i prodotti rimanevano nei negozi invenduti e le fabbriche cominciarono a chiudere; gli operai senza lavoro limitarono ulteriormente i consumi, e fu crisi nera. Solo allora gli economisti si resero conto che produrre merci a basso prezzo non basta: occorre anche produrre qualcosa che "trovi mercato", qualcosa che per i consumatori sia più attraente delle altre alternative che hanno nell'impiego dei loro soldi. Dall'agonia dell'Era Industriale era nata la "Società dei Consumi": un sistema economico dove è il mercato che comanda la produzione, e non più viceversa. Un sistema dove - come ha osservato qualcuno - non si produce più per consumare, ma si consuma per poter produrre.

 

 Arrivano i giapponesi

Un altro passo avanti lo fecero i giappo­nesi negli anni '60; le loro industrie disponevano di manodopera abile e qualificata a costi inferiori a quelli occidentali, e il progresso nei trasporti marittimi le rese competitive anche sui mercati oltreoceano. Cominciarono quindi a esportare negli Stati Uniti e in Europa i loro prodotti a prezzi più bassi, mandando fuori mercato diverse industrie locali: prima le fotocamere, poi gli apparecchi radio, poi le motociclette e i cantieri navali. 

Quando però i giapponesi attaccarono il "core business" dell'automobile, sui mercati occidentali cominciò a spirare il vento del protezionismo, e quegli Stati iniziarono a imporre dazi "compensativi" dei minori costi di manodopera giapponesi. Ai consumatori ciò non piaceva, ma gli fu detto che il sacrificio era necessario per salvare i loro posti di lavoro.

Se però era possibile far digerire dazi "compensativi" su automobili vendute a prezzi più bassi, lo era assai meno per auto vendute allo stesso prezzo, ma migliori per qualità. Perciò le industrie giapponesi, contando sull'appoggio delle potenti associazioni americane dei consumatori, concentrarono i loro sforzi nel produrre autovetture ben rifinite, affi­dabili e prive di cigolii; lo fecero tanto più volentieri in quanto un'auto affidabile rende superflua quella rete capillare di assistenza che all'estero loro non poteva­no avere. E per i costruttori occidentali fu giocoforza adeguarsi, ma per farlo c'era un ostacolo: nella società nipponica l'azienda è una specie di famiglia allargata, e l'operaio medio giapponese era lieto di contribuire alla buona fama della "sua" azienda dando un contributo per migliorare la qualità del prodotto.

L'Occidente invece veniva da un secolo di conflitti sociali, anche violenti, tra imprenditori e lavoratori; pertanto la qualità dei prodotti occidentali andava imposta dall'alto.

 

I primi "Sistemi qualità" occidentali

I controlli finali sul prodotto

Sino a quegli anni in Occidente la "quali­tà" dei prodotti veniva controllata solo all'uscita dalla fabbrica, per evitare di immettere nel mercato pezzi difettosi, fonte di reclami e cattiva reputazione; i prodotti più complessi e costosi (come le automobili) si possono far controllare uno per uno; quelli più semplici, per i quali un controllo esaustivo sarebbe troppo costoso, vengono controllati "a campione".

Dalla percentuale di pezzi difettosi riscontrati nei campioni si risale, con opportuni algoritmi matematici, alla pro­babile percentuale di pezzi difettosi dell’ intero lotto, che non deve mai superare il livello ritenuto accettabile. 

Se lo supera, l'intero lotto va controllato; e quando un controllo esaustivo sarebbe troppo oneroso (è il caso, ad esempio, delle minuterie metalliche) conviene semplicemente scartata.

 

I controlli sul progetto e sul processo

L'offensiva dei giapponesi fece capire che tutto ciò non bastava. Non era più sufficiente controllare solo il prodotto finale; occorreva fare altrettanto per il suo processo di produzione. 

I controlli sul prodotto finito sono sufficienti per i pro­dotti agricoli e per quelli "poveri", a bassa tecnologia; ma i problemi dei prodotti più complessi di solito si trovano a monte: nel progetto e nella sua industrializzazione.

I difetti di progettazione venivano allora corretti in fase di sviluppo, mediante collaudi sui prototipi.

E' un modo di procedere per "prove ed errori", lento e costoso; e anche poco efficiente, dal momento che non serve a individuare i difetti che si manifestano solo con l'uso prolun­gato: quelli li scoprono poi i clienti, con ovvi danni per l'immagine (e i bilanci) della Casa produttrice.

In Giappone era lo stesso personale, coinvolto nello sviluppo del prodotto, che cercava sin dall'inizio tutti i possibili difetti: un sistema efficiente, veloce ed econo­mico, ma applicabile soltanto lì. Americani ed europei (soprattutto tedeschi) riuscirono però a trovare un surrogato recuperando le loro vecchie esperienze di guerra.

La guerra moderna è in fondo la forma di concorrenza più dura, letteralmente "senza esclusione di colpi"; e un vantaggio tecnologico può essere fondamentale per la vittoria. 

Durante la Seconda Guerra Mondiale entrambe le parti in conflitto dedicarono a questo risorse enormi: la Germania con Von Braun sviluppò le "V2" e gli U.S.A., col "progetto Manhattan", la bomba atomica. Poiché la rapidità in questi casi è fondamentale (occorre avere la nuova arma prima del nemico) in entrambi questi progetti si studiarono tecniche avanzate per controllare il processo di progettazione e sviluppo. Molti dei protagonisti del "progetto Manhattan" nel dopoguerra erano usciti di scena: Oppenheimer oppresso dai rimorsi, Fermi e Von Neumann uccisi dalla troppa esposizione a radiazioni.

Solo Teller restava sulla breccia, ma le sue ricerche erano ovviamente segrete. In compenso Von Braun si era trasferito negli U.S.A., dove progettava missili per l'esercito; quando nel 1957 i Russi lanciarono lo "Sputnik" e la risposta americana (il "Vanguard", progettato dalla Marina) fallì miseramente il lancio, lui riuscì in poche settimane a montare un satellite "Explorer" su un missile militare "Jupiter C" e a lanciare il tutto con successo, salvando l'onore della tecnologia statunitense. Solo allora il governo Eisenhower comprese che la "gara spaziale" coi Russi era una cosa seria, e agì con pragmatismo americano: nel 1960 tutte le risorse disponibili confluirono in un unico ente spaziale (la "NASA") con a capo proprio Von Braun, che vi poté applicare le tecniche di controllo del progetto messe a punto in Germania durante la guerra.

E poiché la NASA era un ente civile, queste tecniche erano disponibili anche per l'industria. Fu così che negli anni '70 le aziende ame­ricane ed europee (soprattutto tedesche) svilupparono un complesso sistema di "liste di controllo" (check-list) per verificare i prodotti durante la loro progettazione ed elaborazione (controlli dì progetto e di processo) e prima della loro immissione nel mercato (validazione).

 

La delega all'indotto

Il passo successivo fu ancora dei giapponesi, quando essi corsero il rischio di rimanere vittime del loro stesso successo: le industrie ormai producevano quasi solo per l'esportazione, procurando alla bilancia commerciale un saldo attivo costante.

Quindi per quasi vent'anni la quota­zione dello Yen non fece che salire, e per conseguenza negli anni '80 i solari dei sudditi imperiali, tradotti in dollari, diven­nero i più alti del mondo. Per recuperare il vantaggio competitivo occorreva comprimere i costi. Vi riuscirono con una divisione del lavoro di tipo nuovo, applicando alle loro industrie in sostanza gli stessi metodi che Henry Ford aveva applicato ai propri operai.

Ciascun produttore si specializzò nei pochi settori dove riusciva meglio, sostituendo le costose e rigide catene di montaggio con robot sempre più efficienti e flessibili: in tal modo una piccola fabbrica poteva produrre in grandi quantità componenti su progetto dei produttori maggiori, che poi li assemblavano. La coesione tipica della società nipponica fece sì che ciascun anello della catena avesse piena fiducia negli altri: i componenti richiesti rispondevano sempre ai requisiti di progetto e arrivavano sempre al momento previsto, ciò che consentì alle grandi marche - divenute assemblatori finali - di sfornare continuamente nuovi modelli risparmiando sui costi di investimento in impianti e macchinari.

Ancora una volta per gli occidentali fu giocoforza adeguarsi. I robot asserviti a computer (CAM) consentono di delegare ai fornitori il lavoro di interi reparti: il capo operaio sì ricicla come piccolo imprenditore di una impresa familiare e questo rende il sistema molto più efficiente e flessibile. Il vecchio Henry Ford pretendeva di fabbricarsi tutto in casa, pneumatici compresi: arrivò ad acquistare piantagioni in Amazzonia, per partire dal lattice di gomma.

Oggi invece la grande fabbrica trasferisce i suoi reparti all'esterno divenendo cliente di tante piccole ditte indipendenti, sovente fondate proprio dagli ex-operai di quegli stessi reparti. Per garantire la buona qualità delle merci consegnate, l'azienda-cliente non fece altro che trasferire i suoi controlli di qualità all'esterno, presso le piccole aziende dell'indotto. Infine, per garantire la puntualità delle consegne (fondamentale per far funzionare la "catena" logistica senza i costosi immobilizzi di magazzino) furono creati metodi di gestione appositi, come il "just in Time" o il "kan ban" (che in giappone­se vuoi dire "cartellino").

 

Gli enti certificatori indipendenti e le norme ISO 9000.

Il punto debole di questo sistema stava nel rapporto esclusivo tra fornitore e cliente. Un fornitore che ha un solo clien­te, se lo perde è costretto a chiudere.

Per sopravvivere senza questa spada di Damocle, la piccola ditta tornitrice deve cercarsi clienti alternativi. 

D'altra parte anche la grande ditta cliente ha interesse a diversificare le sue fonti di approvvigionamento, per garantirsi da eventuali problemi di qualità, puntualità o prezzo.

E' quindi portata a interpellare i fornitori delle sue concorrenti: chi sa fare marmitte per la Fiat può farne anche per la Ford, o la Opel, o la Renault.

C'era però l'ostacolo delle ispezioni sul posto. La potenziale ditta cliente, per essere certa della bontà del prodotto, deve assicurarsi anzitutto che sia buono il processo che lo produce; ma d'altra parte quasi tutti i contratti di fornitura contengono clausole di riservatezza che vietano al fornitore di una grossa ditta di fare esaminare la propria linea produttiva da funzionar! di una ditta concorrente.

 Di qui l'esigenza di trovare un ente terzo che garantisca al nuovo cliente la capacità e serietà del potenziale fornitore, evitando ogni accusa di spionaggio industriale.

Questa fu, in larga sintesi, l'origine della "certificazione di qualità" che fu stabilita a livello europeo nel 1987 con la serie di norme "ISO 9000" (note in Italia come UNI EN ISO 9110-2-3), poi riviste nel 1994: si trattava, in sostanza, di garantire alle grosse ditte che il loro potenziale fornitore era in grado di adempiere correttamente alla sua funzione.

 

La norma ISO 9001:2000

L'applicazione di queste norme ebbe grande successo.

Quasi subito infatti ci si accorse che esse potevano uscire dall'ambito originario, e da garanzia di buon comportamento nei confronti di un potenziale cliente divenire una specie di "marchio di qualità" dell'azienda nei confronti dell'intero mercato. La certificazione di qualità cominciò quindi ad uscire dall'ambito dov'era nata (quello delta sub-fornitura) per essere chiesta anche da grossi produttori indipendenti e da studi professionali, non tanto per rassicurare i potenziali clienti quanto per migliorare l'organizzazione interna dell'azienda e la sua immagine di mercato.

Ci si accorse però che la norma, con la sua pretesa di regolare le varie funzioni, stava cadendo in un vicolo cieco: da un lato era troppo generica per le esigenze di certi settori (di qui il fiorire di ulteriori specifiche particolari: ad esempio per le forniture NATO, o per l'industria dell'auto) e dall'altro era troppo rigida e dettagliata per descrivere il funzionamento di un produttore indipendente o di uno studio professionale.

Di qui la necessità di rinnovare la norma, dandole un carattere meno formale, meno burocratico e più generale.

Da questo processo di revisione è uscita la norma ISO-EN 9001:2000, che è attualmente in vigore.

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Tratto da “La certificazione di qualità degli studi tecnici professionali” – Roma, Edizioni di Legislazione Tecnica -2005